A 65 anni della nascita di Israele, è tempo di stilare un bilancio obiettivo. Sono stati 65 anni di gioia, perchè il popolo di Dio dopo migliaia di anni è riuscito a mantenere la promessa che il libro di Dio gli aveva fatto, ma sono stati anche anni pieni di dolore, attentati, scontri, guerre. E ciò che è più grave è che il progetto finale, la realizzazione della Grande Israele, è ancora in fase di stallo per la pervicace presenza degli arabi palestinesi in Cisgiordania e a Gaza.
C’è qualcosa che non ha funzionato, forse già dalla prima metà del secolo scorso, quando il sionismo iniziava la colonizzazione della Terra Santa in vista della Grande Israele. D’altronde, trattandosi di un progetto che sotto l’apparenza religiosa nascondeva una profonda volontà del mondo occidentale di espandersi in territori ancora “vergini”, sorge immediato il tentativo di paragone con la gloriosa “conquista del West” che ha portato alla realizzazione degli odierni Stati Uniti d’America. Andando perciò ad analizzare la storia d’oltreoceano, risulta evidente che – nonostante si trattasse di territori molto vasti – la pulizia etnica fu portata a termine in maniera egregia, fatta eccezione per i folkloristici gruppetti di indios che tuttora pascolano nelle riserve.
E la somiglianza dei due fenomeni coloniali, oltre agli aspetti economici e politici, è ancor più evidente sotto il profilo “motivazionale”: Jeffrey Amherst, comandante britannico, nel 1763 considerava i nativi americani “non un nemico, ma la razza più vile che abbia mai contaminato la Terra, la cui eliminazione va considerata come un atto di liberazione a vantaggio dell’umanità”; in maniera molto simile Raphael Eytan, ex-capo dell’esercito israeliano, parlò degli arabi palestinesi come “scarafaggi impazziti in una bottiglia”, e nel 2000 Ehud Barak aggiunse che erano “un cancro da curare con la chemioterapia”.
Ehud Barak e Barack Obama
La domanda è quindi obbligata: cosa è mancato all’avanzata sionista nel ‘Near East’ rispetto a quella europea nel ‘Far West’?
Credo, e non è paradossale, che sia mancato un pizzico di cattiveria.
Certamente, episodi “forti” ce ne sono stati. Cito solo due esempi: il 9 aprile 1948, 6 settimane prima della proclamazione dello Stato d’Israele, l’intero villaggio di Deir Yassin venne raso al suolo insieme alle vite dei suoi 300 abitanti; nei 23 giorni a cavallo tra il 2008 e il 2009, l’esercito israeliano scatenò l’operazione Piombo Fuso contro la – sostanzialmente inerme – Striscia di Gaza, uccidendo 1434 persone e ferendone 5303, anche attraverso l’uso del fosforo bianco.
Esplosione durante Piombo Fuso
Insomma, il rigore razziale è sempre stato affiancato da azioni materiali, eppure, a 65 anni dalla famosa Nakba, i dati parlano chiaro: in Palestina ci sono ancora 3,3 milioni di arabi, divisi tra West Bank e Gaza, ai quali vanno sommati gli 1,3 milioni di arabi israeliani.
Oltre a queste cifre, obiettivamente non possiamo negare che la situazione sia insostenibile ed imbarazzante. Non possiamo fare finta di non vedere lo stato di effettiva e piena apartheid in cui vive la popolazione palestinese. Vessazioni, umiliazioni, negazione di diritti fondamentali, sono tutti episodi all’ordine del giorno nell’intera regione sotto il controllo israeliano.
Per trovare una via d’uscita, la soluzione dei due Stati è razionalmente insostenibile, non solo perchè prevede che uno dei due Stati sia ebraico, quindi fondato su una religione (l’ebraismo), quindi confessionale, e quindi contro ogni principio democratico, ma a maggior ragione se pensiamo che lo Stato di Israele è nato appena 65 anni fa su un territorio già abitato, e le persone che in quanto ‘non-ebree’ sono state cacciate dalle loro case sono ancora in vita, rendendo di fatto inapplicabile anche la bizzarra teoria dell’ ”ognuno a casa sua fa quello che vuole”.
D’altronde, l’ipotesi di uno Stato unico binazionale, se è vero che sotto il profilo dei diritti umani sarebbe legittima e democratica perchè permetterebbe a due etnie di vivere liberamente nello stesso territorio, è in evidente contraddizione con il fondamento ideologico del sionismo, che esige la purissima ebraicità della popolazione che vuole abitare la Terra Santa.
Che fare, allora?
A questo punto del ragionamento, la mia proposta – per quanto forte e decisa – diventa una scelta quasi obbligata: annientare rapidamente la popolazione palestinese.
Le conseguenze politiche sarebbero nulle o irrilevanti, avendo la comunità internazionale già dimostrato di essere piuttosto disinteressata alle dinamiche della regione. D’altro canto, i vantaggi per il benessere di Israele sarebbero evidentemente illimitati.
Per quanto attiene alle questioni pragmatiche, da semi-incompetente dell’arte bellica posso solo dire che 4,6 milioni di persone non mi sembra un numero insormontabile. Certamente un eventuale uso delle bombe atomiche israeliane sarebbe sconsigliato, non già perchè il simpatico “segreto di Pulcinella” che ruota intorno alla loro esistenza verrebbe smascherato, ma soprattutto perchè in questo modo si andrebbe a contaminare un territorio che, facendo parte della Grande Israele, è comunque da considerarsi divino.
D’altronde il fosforo bianco ha già dato prova di grande efficacia riguardo la distruzione dei tessuti cellulari umani, e la altissima densità abitativa nei territori palestinesi faciliterebbe notevolmente l’uso di queste bombe, riducendone anche gli sprechi.
Effetti del fosforo bianco
Tutto ciò senza considerare che la popolazione araba, una volta realizzata l’irreparabilità della situazione che si verrebbe a creare, sarebbe almeno in parte spinta a migrare altrove, allontanandosi autonomamente dal recinto divino. Possiamo stimare questa porzione in un terzo del totale, riducendosi così a 3,1 milioni il numero di arabi da sopprimere.
Considerato lo stato dell’arte, e visti anche i solidi rapporti con l’avanzatissimo esercito statunitense, ritengo che questo obiettivo possa essere raggiunto, a ritmi serrati, nell’arco di 30 giorni. 30 giorni di sacrifici, di sforzi, di impegno concreto, ognuno a combattere nel suo ruolo questa guerra purificatrice. 30 giorni a fronte di un’eternità pacifica ed incontaminata.
Credo valga la pena.