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$ Factor: il Talent show come ultima umiliazione dell’arte

“Se dovessimo cercare una speciale caratteristica che distingua la nostra epoca, non saremmo lontani dal vero se dicessimo che tale caratteristica è l’incapacità di grandezza. Non c’è mai stata al mondo, crediamo, un’epoca così grama e meschina. Siamo incapaci di pensiero profondo, di emozione intensa, di azione coordinatamente superiore. Siamo gli artificiali e i provinciali di noi stessi. Non si potrebbe descrivere meglio quel che sta accadendo negli animi e nel mondo che dandogli il nome di provincializzazione dell’Europa.”
Fernando Pessoa, Il libro del genio e della follia

Dove l’arte è ridotta a mero esercizio riproduttivo di modelli calati dall’alto.
Dove l’ingegnerizzazione del prodotto artistico richiede l’implementazione di macchine umane sempre più alienate, sempre migliori nell’esecuzione, più programmabili, più settorializzate: statiche macchiette, flat characters.

Si chiama Talent show, ed è uno dei più mostruosi dispositivi biopolitici di questi ultimi anni. E’ un format televisivo grazie al quale in ogni casa arrivano forti e chiari i canoni che l’industria culturale ha stabilito per ogni suo scaffale, dal reparto dischi al banco dei libri, fino ad arrivare all’angolo gastronomia e alle frittate, pardon, omelettes.

Il funzionamento è molto semplice e – nella sua follia – lineare: l’arte viene assolutizzata, immobilizzata, deportata in mezzo ad uno studio televisivo, e gli aspiranti artisti le si avvicinano a turno per vedere chi le somiglia di più, in un paradossale scambio di posizioni dove la critica non segue più l’arte ma ontologicamente la precede.

Sulle pareti, nel frattempo, viene proiettato il solito circo emozionale: la lacrima di chi sbaglia la dose di burro nella torta; l’espressione schifata dello scrittore di successo mentre strappa il romanzo di un concorrente; l’inquadratura stretta sulla disperazione del ragazzo che viene eliminato dalla scuola di teatro. La banalizzazione dell’arte passa per la reificazione dell’emozione: l’uso coercitivo della tecnologia ci condanna alla dittatura dell’ipotalamo.

Ed è proprio nell’intimo del cervello che, oltre all’idea che l’unico modello di danza sia quello di Maria de Filippi e l’unico modo di cantare sia quello di X-Factor, si instilla anche la paura del fallimento. Trionfa chi si attiene meglio al compitino assegnato, chi viene incontro ai giudici, ai professori, al televoto, alla massa. Vince chi sacrifica la propria personalità sull’altare dell’omologazione.

Da ciò segue la distruzione di ogni possibilità di ‘genio’: ogni tensione creativa viene incanalata sui binari del fruibile, dell’orecchiabile, del monetizzabile. L’arte non avanza, i parametri rimangono sostanzialmente immobili nella palude del commercio, salvo alcune variazioni formali intorno al trend della domanda.

Il corto circuito è completo: la massa compra ciò che l’artista produce secondo i criteri dell’industria che plasma la massa. Oppure, per gli amanti della costituzione, “La sovranità artistica spetta al telespettatore, che la esercita nelle forme e nei limiti stabiliti dal format.”

La trascendenza è solo uno scomodo ricordo del passato.
Come un tavola dove mangiare, un letto dove dormire, oggi anche l’arte è finalmente orizzontale.

 “Oggi, l’estendersi dell’educazione e la costante agitazione di problemi intellettuali producono, diciamo, dieci uomini di talento per ognuno che ve n’era anticamente; per cui concludiamo che siamo superiori. Ma per ogni cinque uomini di genio che v’erano un tempo, oggi non ne produciamo alcuno. E poichè dieci talenti non fanno un genio, un’epoca di molti talenti non è, nè vale, un’epoca di un solo genio.”(ibid.)